"Terrazza Sentimento”: e se Genovese fosse stato una donna?

Jakub Stanislaw Golebiewski • 17 dicembre 2020

Se Alberto Genovese si fosse chiamato Alberta, ricca imprenditrice della Milano da bere accusata di aver drogato e poi stuprato un 18enne, come avrebbe reagito l’opinione pubblica?

Credevo di morire”: sono le parole di Michela, la giovane donna che ha accusato Alberto Genovese di averla drogata e stuprata. Ieri ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera ed ha negato che ci sia in corso una trattativa economica con i legali dell’imprenditore delle start up per un risarcimento danni. Ma se anche così fosse? Abitiamo un mondo che colpevolizza le donne vittime di stupro costrette quasi a discolparsi per corrispondere al clichè della vittima perfetta. Una vittima al di sopra di ogni sospetto. Ma sospetto di cosa? Nel film Sotto accusa del 1988, Jodie Foster interpreta una giovane donna che viene stuprata in un bar dopo aver ballato e flirtato, ubriaca, con un ragazzo. All’epoca il film venne presentato nel trailer con questo commento: “lo stupro è l’unico reato per il quale la vittima deve provare di non essere colpevole”.


Sono trascorsi 32 anni, e in ogni parte del mondo, anche nel civilissimo occidente, è ancora così. Che in Italia manchi una cultura rispettosa delle donne siamo tutti d’accordo (o quasi) e nel corso degli anni, abbiamo avuto prove certe di come sia facile passare da carnefice a vittima e da vittima a carnefice, invertendo solamente due paroline magiche: uomo con donna. Michela è stata ferita due volte: dall’uomo che ha accusato di stupro, Alberto Genovese, e da certa opinione pubblica che, fomentata da una vera e propria violenza mediatica, l’ha giudicata, innescando un processo di vittimizzazione secondaria indegno per un paese civile come il nostro. Ciò che ha subìto Michela quella notte è tanto deplorevole quanto inaccettabile, sempre e comunque. Per una volta proviamo a mettere in crisi i nostri pregiudizi, immaginando di de-umanizzare il maschio. Che sia questa volta l’uomo abusato e stuprato in quanto tale. Se Alberto Genovese si fosse chiamato Alberta e fosse una ricca imprenditrice della Milano da bere accusata di avere prima drogato e poi stuprato un 18enne per oltre 18 ore, come avrebbe reagito l’opinione pubblica?


Invertiamo i ruoli, immaginiamo una regina delle start-up, una donna di potere, proprietaria del superattico al sesto e settimo piano in piazza Santa Maria Beltrade con vista Duomo. Una donna non proprio attraente, con un fisico di chi ha scelto di stare seduta per studiare piuttosto che frequentare palestre per rimorchiare in discoteca. In carne, con gli occhiali e la pancetta che richiama allo stereotipo della donna di potere, intoccabile e dalle disponibilità economiche pressoché illimitate. Essi, i soldi entrano sempre in gioco in queste storie come abilitanti o attenuanti la violenza, semplicemente perché consentono di esercitare pressioni su chiunque, di comprare tanto la droga quanto dei bellissimi uomini da portare in camera da letto e usare come dei bambolotti di pezza. La serata inizia con una modalità standard per chi frequenta quell’ambiente, droga e alcol somministrati gratuitamente in modalità all you can eat, musica e trasgressione, quest’ultima spesso declinata fino alla violenza. Tutti sapevano, o quantomeno sospettavano, che la ricca imprenditrice drogasse e abusasse di uomini. Lo sapevano gli amici e le amiche che la coprivano, eppure lei continuava imperterrita, comprava il loro silenzio e stordiva le vittime con cocaina, mdma, ketamina e 2CB, nota come “cocaina rosa” e dal prezzo esorbitante, una dose da 0,15 grammi può costare anche 400 euro.

Lei può scegliere, lei decide di giocare con il più giovane e bello quella sera, tendendogli una trappola come una mantis religiosa che sa il fatto suo. Incastra il bello e giovane uomo proprio facendo leva sulle normali caratteristiche adolescenziali come la voglia di divertirsi, sentirsi migliori anche al limite di ciò che è normalmente accettato, la voglia di scoprire cose nuove, di stare in luoghi esclusivi, di giocare un po’ anche con l’adrenalina. Prerogative che valgono tanto per gli uomini quanto per le donne in un momento in cui l’alternativa è difficile da trovare: fuori c’è il Covid, fuori c’è il nulla e l’illusione di avere il mondo sotto i piedi nella Terrazza Sentimento diventa una realtà effimera e pericolosa. E’ bastata qualche sniffata in più per cadere in un inconsapevole intontimento che lo ha portato, completamente nudo, a subire per oltre 18 ore quello che nessun uomo mai immaginerebbe di subire da una donna. Legato, frustato, umiliato e violato fino a riportare gravi conseguenze fisiche e psicologiche. Suona strano vero? Culturalmente abbiamo sempre accettato che uomini commettessero molestie e stupri nei confronti delle donne e che queste ultime siano state colpevolizzate fino ad essere stigmatizzate come puttane perché se l’erano andata a cercare. Ma che cosa accadrebbe se la condizione di vittima fosse quella di un uomo? (Lo status di vittima e di “puttanella” potrebbero convivere al maschile?).


La coercizione di un uomo può avvenire mediante l’uso di forza fisica oppure perché la vittima è incapace di esprimere un consenso esplicito (ad esempio, è incosciente o sotto l’effetto di alcool e droghe). I dati Istat sulle molestie sessuali ha rilevato che anche gli uomini ne sono vittime (anche se i perpetratori sono nell’85,4% dei casi uomini, un 15% delle molestie sessuali sono agite da donne). Se fosse una donna di potere a molestare o usare violenza sessuale nei confronti di un giovane uomo, un 18enne, come sarebbe la narrazione della stampa e come si schiererebbe l’opinione pubblica? Punterebbero il dito contro la fragilità e l’ingenuità della vittima? Criticherebbero i genitori che non lo hanno controllato per tutelarlo da possibili violenze? Infine, vedrebbero questo ragazzo, giovane e attraente, come una potenziale preda che non doveva esporsi a rischi?


Uno stupro è uno stupro e dobbiamo avere il coraggio di dire che è violenza qualsiasi azione commessa contro una persona senza il suo consenso.


di Jakub Stanislaw Golebiewski

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