Ogni volta che saluto i miei figli dopo una giornata insieme, provo una miscela esplosiva di emozioni. La gioia per i momenti condivisi si scontra brutalmente con un vuoto opprimente. Li osservo allontanarsi, sperando in un ultimo sguardo, mentre dentro di me si agita un turbine di sensi di colpa e paure. Mi chiedo: ho fatto abbastanza? Hanno percepito quanto li amo? E poi, l’ansia sottile di non sapere cosa accadrà quando non sarò lì a proteggerli.
Salgo in macchina, accendo la radio, ma ogni canzone sembra una beffa, anche le ultime di Sanremo lasciano l’amaro in bocca. Torno a casa e le stanze vuote amplificano la mia solitudine. Il tempo con loro vola, mentre senza di loro si trascina inesorabilmente. Mi ripeto: "Farò di tutto per esserci sempre, anche se c’è chi fa di tutto per impedirmelo."
Essere un papà separato oggi significa vivere a metà, sotto giudizio, in bilico. Ogni abbraccio è più intenso perché non so quando sarà il prossimo. Ogni risata va assaporata fino in fondo, perché nel silenzio che seguirà, sarà quella la voce che mi terrà compagnia. Eppure, ho la percezione che per il sistema, per la legge, per la società, il mio ruolo vale meno di zero.
Ma non è solo una questione emotiva. La separazione porta con sé una serie di sfide concrete che pochi vogliono vedere. Secondo l’Istat, in Italia ci sono oltre 4 milioni di padri separati e divorziati, di cui 800.000 vivono sulla soglia di povertà. Il 46% dei nuovi poveri è rappresentato da padri separati non collocatari, ossia quelli che pagano per tutto ma decidono su niente. Affitti impossibili, spese legali senza fine, mantenimento che non tiene conto della loro sopravvivenza. A peggiorare questa condizione di precarietà è stata la cancellazione del Reddito di Cittadinanza, un provvedimento che, pur con i suoi difetti, rappresentava un’ancora di salvezza per molti padri separati caduti nella povertà. Un sostegno economico che permetteva, almeno, di pagare un affitto, di mettere insieme un pasto, di non scivolare nel baratro dell’indigenza totale. Ma il Governo, così attento a elargire bonus e agevolazioni per ogni categoria possibile, ha ignorato completamente questi uomini, relegandoli al limbo dei nuovi invisibili. Perché un padre separato che fatica a sopravvivere non fa notizia, non porta voti, non suscita pietà. Meglio lasciarlo annegare in silenzio, sperando che smetta di esistere anche nelle statistiche.
Uomini che lavorano, si spezzano la schiena e poi dormono in auto o in stanze condivise, mentre la loro dignità viene dilaniata da un sistema che li considera solo bancomat con le gambe. E come se non bastasse, c’è la solitudine, il sospetto, il pregiudizio. La società, sempre pronta a osannare la figura materna, guarda i padri separati come falliti, inutili, colpevoli per default. Un padre che lotta per vedere i figli è un "ossessionato", mentre una madre che li allontana è "una madre protettiva". E guai a chiedere equità: si diventa automaticamente "violenti", "pericolosi", "non idonei alla genitorialità".
Eppure, nonostante tutto, io resisto. Mando un messaggio prima di dormire, nascondo un biglietto nello zaino, invio una foto a sorpresa. Trasformo l’assenza in resistenza. Perché anche se il sistema mi vuole fantasma, io sarò presente, ovunque, sempre.
E quando la porta si chiude e il mondo sembra fermarsi, resto lì, con il cuore sospeso e i pugni stretti, a cercare un senso in questa battaglia. Perché, nonostante tutto, un padre non smette mai di essere padre. Anche quando gli tolgono tutto, anche quando lo annientano, anche quando lo condannano al silenzio.
La paternità non si misura con le sentenze o i decreti, ma con l’amore che si semina. E so che, ovunque siano, i miei figli sanno di avere un posto sicuro dove tornare: il mio cuore, che li aspetta, sempre.