Il femminismo della rete Di.Re tra esclusione e inclusione

Redazione • 28 ottobre 2025

Escludere gli uomini che partecipano alla lotta contro la violenza di genere significa frenare il progresso e perpetuare le stesse dinamiche di potere che si vorrebbero superare. 

Questa riflessione nasce in risposta all’articolo della dott.ssa Nadia Somma pubblicato su Il Fatto Quotidiano, riguardo all’espulsione dell’associazione Artemisia dalla rete D.i.Re per la presenza di uomini tra i suoi soci.

Cosa resta del femminismo se, da movimento di liberazione e inclusione, si irrigidisce in uno spazio chiuso? L’espulsione dell’associazione Artemisia dalla rete D.i.Re giustificata dalla presenza di uomini tra i suoi soci, non è solo una questione interna: è un segnale d’allarme che mette in discussione la credibilità e la forza propulsiva del femminismo stesso.​ Punire Artemisia, nonostante fosse ben noto lo statuto restrittivo, per aver scelto di coinvolgere anche padri e uomini impegnati nella lotta alla violenza di genere, è il sintomo di una deriva miope. Si rischia di trasformare una battaglia per la libertà in una guerra di confini, dove la logica non è più quella del cambiamento, ma della chiusura. Escludere chi vuole collaborare solo perché uomo significa perdere una risorsa fondamentale e, paradossalmente, rafforzare le stesse dinamiche di potere che si vorrebbero abbattere.

Oggi, dire che lottare contro la violenza sulle donne debba essere “un affare tra donne”   è una

formula che, invece di proteggere, isola. Non c’è spazio per muri nella lotta alla violenza di genere: serve il coraggio di aprire varchi e accogliere chi ha deciso di schierarsi dalla parte giusta della Storia. “Essere liberi non significa semplicemente liberarsi dalle catene, ma vivere in modo da rispettare e accrescere la libertà degli altri”, ricorda Jean-Paul Sartre.

Ed è proprio questa la sfida: nessuna emancipazione reale nasce dalla chiusura o dalla selezione dei partecipanti in base al genere. La libertà si alimenta nel dialogo e nella corresponsabilità. Le cosiddette “zone sicure”, se gestite in chiave escludente, diventano zone sterili. L’idea che la presenza maschile sia una minaccia per sé richiama la stessa mentalità di sospetto che, per secoli, ha relegato le donne ai margini. Ribaltare questa logica non vuol dire vendetta, ma costruire basi nuove per la convivenza e la responsabilità condivisa.

Serve molto più coraggio ad aprire tavoli misti e permanenti, dove sedere fianco a fianco: centri antiviolenza, padri separati, operatori sociali. Solo così la lotta contro la violenza può fondarsi sulla fiducia, non sulla paura. Chi chiude il confronto, non protegge. Isola. E un femminismo che isola rischia di diventare autoreferenziale, incapace di incidere davvero. Se il movimento vuole ispirare cambiamento, deve imparare a condividere le chiavi delle proprie stanze, non a sigillarle. La vera forza non sta nel serrare una porta, ma nell’avere coraggio di aprirla perché il cambiamento, quello vero, si fa insieme.

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